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Libro Maria

(alla deriva in un mare d’erba)

Patrizio Pinna




Capitolo zero

La Risalita dei Merluzzi


La mensa comunale in disuso che avevamo preso di mira sorgeva al secondo piano di un edificio abbandonato in un tranquillo quartiere limitrofo al centro. L’insegna del cinema sottostante ci avrebbe garantito l’energia elettrica necessaria e l’osteria con cui dividevamo l’isolato una degna sopravvivenza etilica. La nostra scelta sembrava più che azzeccata, perfino la casa di cura che dominava il circondario era una presenza rassicurante. Vista in una certa prospettiva.
Grazie ai tronchesi che Drugo prese in prestito da una camionetta dei Vigili del Fuoco non impiegammo molto a superare le resistenze del lucchetto che ci impediva il passo e in quattro e quattr’otto traslocammo nel nostro nuovo centro sociale occupato autogestito: Il Dirigibile Indigeribile.
Non sapevamo cosa avremmo potuto trovare all’interno e senza parlare – visto che avevamo già fumato discretamente – perlustrammo il locale come provetti agenti segreti. Siringa infilò l’imbracatura e Spino assicurò il cavo d’alpinista al termosifone di ghisa murato di fronte al davanzale. Non feci in tempo a girarmi un richiamino che Siringa stava già in parete per sabotare l’insegna del cinema Splendor che proiettava un classico a luci rosse.
Eravamo nemmeno una ventina di punk, ma non avevamo nulla da invidiare ai più abili agenti segreti, almeno questo era quello che mi passava per la testa in quel momento. Fatto sta che Siringa, in meno di dieci minuti, riapparve sul cornicione.
Aspettavamo un cenno di conferma per azionare l’interruttore principale, ma Siringa barcollava con lo sguardo perso nel vuoto. Pensammo che avesse preso la scossa nello smontare l’insegna, lo tirammo dentro di peso e cercammo di scuoterlo dal torpore. Per fortuna non si era fatto niente, o meglio, qualcosa si era fatto, ma nulla di pericoloso. Dopo aver collegato i fili, Siringa, aveva pensato bene di girarsene una in parete, come un alpinista alla conquista dell’Himalaya, e ora stava al centro – sulla vetta – esterrefatto non tanto nel constatare che a ottomila metri ci fossero quasi venti persone, quanto dal rendersi conto di conoscerle tutte.
Tutto si svolgeva secondo i piani. Avevamo occupato da non più di un quarto d’ora e già avevamo la luce. Ora non dovevamo fare altro che redigere un manifesto da recapitare al Comune e alle varie testate cittadine per informare le istituzioni del nostro esproprio proletario. Se ci fossimo tenuti lontani dall’opinione pubblica i manganelli della polizia non avrebbero impiegato molto a disperderci, mentre intraprendendo una diatriba dialettica con le autorità saremmo stati presi di mira dai mass media, quindi protetti da quest’ultimi. Alla faccia dei pulotti che avrebbero voluto bere il nostro sangue.
Non ricordo di preciso cosa scrivemmo sul manifesto che Lupo recapitò agli uffici preposti, so solo che unimmo alla bene e meglio concetti presi in prestito dalla Costituzione, dal Codice di Procedura Civile, dalla Guida Galattica per gli Autostoppisti e dal discorso di San Crispino. Fu un successo… un successo in piena regola. Gli impiegati non solo non torchiarono il nostro ambasciatore, nemmeno gli rivolsero la parola, impegnati com’erano a parlare di pesci. E sì che non era neanche ora di pranzo.
Lupo tornò al centro esterrefatto dal sapere che sia i comunali che i giornalisti quella sera avrebbero mangiato merluzzo.
Dopo la mezzanotte, essendo tecnicamente trascorso il primo giorno d’occupazione, iniziarono i festeggiamenti. La nebbia calò improvvisa e tromba dopo tromba ci ritrovammo a confondere il giorno con la notte e la notte col giorno. Andammo avanti così per giorni, settimane, mesi forse, quando a un certo punto vivemmo la nostra prima esperienza di comunione telepatica. Sinceramente non credevo che l’erba possedesse simili proprietà, tuttavia non potei far altro che inchinarmi dinnanzi ai fatti.
Ero inebriato. Non tanto per l’esperienza telepatica in sé, quanto per il viaggio che immaginavo dovessimo compiere alla volta di Stoccolma. Il Nobel, pensavo, non ce l’avrebbe tolto nessuno.
Fu una delusione scoprire che non avevamo vissuto un’esperienza metafisica. I merluzzi stavano veramente passeggiando sotto il nostro davanzale.
Drago fu il primo a scoprire la verità. Tutt’a un tratto l’astinenza da notizie sportive lo spinse a uscire nel bel mezzo dei festeggiamenti per accaparrarsi il Guerin Sportivo. Non vi dico lo stupore nel constatare che le pagine sportive erano state sfrattate dalle notizie che da più di un mese affollavano le colonne di tutti i quotidiani, periodici, aperiodici e anche delle riviste letterarie.
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Siamo giunti al nostro trentanovesimo giorno di convivenza con le specie ittiche che hanno seguito l’ormai nota Risalita dei Merluzzi e gli ittiologi confermano che ormai tutte le razze sono presenti all’appello. I Merluzzi, precursori di questa atipica migrazione, sono ormai accampati stabilmente in Borgo Incrociati, mentre i Pesci Palla hanno invaso la quasi totalità delle sale cinematografiche cittadine tanto che per questo mercoledì le proiezioni in programma saranno sospese a favore di una retrospettiva su Alastair Fothergill. Buone notizie per quanto riguarda la viabilità sull’Autostrada del Sole, nella notte orche e delfini si sono spostati in branco dalla carreggiata est in direzione Napoli riversandosi nelle piazzole di sosta degli autogrill. Nessun disagio quindi per chi dovesse mettersi in viaggio anche se raccomandiamo sempre la massima prudenza. Cercate di non dimenticare che questi mammiferi pesano parecchie tonnellate più delle vostre berline, sicché abbiate pazienza.
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Dunque non stavamo sognando, i pesci avevano veramente deciso di risalire la superficie. Da non credere. Spiccio tornò dal giornalaio per accaparrarsi gli arretrati e le edizioni più esotiche e quando fu di ritorno gli effetti dell’ultima tromba scemarono così in fretta che fummo quasi tentati di denunciarlo. Spiccio aprì la porta carico come un cammello e, bofonchiando qualcosa che non riuscimmo a capire, si spostò indietro per cedere il passo. Tutti pensammo la stessa cosa: donne. Sull’uscio però non apparve nessuna ragazza, ma un intero branco di naselli che il nostro compagno aveva scoperto girovagare pericolosamente in mezzo alla carreggiata. Dunque era vero. Nessuno di noi ne aveva mai visti così da vicino, almeno non in ottime condizioni e la cosa ci lasciò alquanto perplessi. Da parte loro invece non vi furono grandi reazioni, strisciarono qua e là per il centro e dopo essersi ambientati un poco si adagiarono uno sopra l’altro in un angolino.
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Edizione Straordinaria. I merluzzi risalgono la superficie provocando il panico in città.
Ancora non si conoscono le cause di siffatta emigrazione. L’umidità, dicono gli scienziati, potrebbe essere un fattore determinante, ma non tanto da coinvolgere tutto il pianeta.
Ci troviamo davanti a un enigma più metafisico che scientifico, anche se i teologi non hanno particolari teorie al riguardo. Gesù certo moltiplicò i pesci e Mosè aprì le acque del Mar Rosso, ma nessuno dei due ospitò mai un branzino nella propria capanna. Non vivo perlomeno.
Tutto il pianeta sta assistendo a un avvenimento più unico che raro, ed è proprio per questo che gli ambientalisti, più aggressivi che mai, sono scesi in piazza per protestare contro gli abusi perpetrati ai danni dei nostri nuovi ospiti.
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Roba da non credere...
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Edizione Straordinaria. Quinto giorno di convivenza.
I nostri ospiti non sembrano affatto trovarsi male. I merluzzi stanno cercando rifugio nei pressi di Borgo Incrociati, mentre le murene sono state viste rintanarsi in posti meno accessibili e bui quali tombini, scarichi e fontane. Gli squali che, emergendo ieri sera nei pressi della Foce, avevano diffuso il panico e distrutto una mezza dozzina di veicoli, si sono allontanati sulle alture cittadine.
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Murene nei tombini e squali in campagna, meglio dell’afro-cubana del ’71!
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Edizione Straordinaria. Assurdità nell’assurdità.
Il WWF non ha fatto in tempo a schierarsi a favore delle acciughe, prossime all’estinzione, che i gatti, dopo aver vissuto il periodo culinario più florido, si sono proclamati vegetariani. Grandissima vittoria ideologica per il WWF dunque, anche se per il portavoce dell’associazione, il dottor Pand-Emonio, il danno economico è ingente: erano già pronte trecentomila spille. Ma non è tutto, anche i ristoranti, in sole due settimane, hanno deciso di rivoluzionare i propri menu. Gli ambientalisti si ritengono soddisfatti, anche se sospettano che il proprio successo sia dovuto più che altro a una ferrea legge di mercato. Nessun ristoratore infatti potrebbe sopravvivere vendendo quello che per le strade, chiunque, può ottenere gratis. Quindi in tutto il pianeta resterà invariata la carta dei vini, mentre per quanto riguarda i menu, l’Associazione Interplanetaria Ristoratori e Affini, costituitasi per l’occasione, ha deciso di bandire il pesce e la carne in qualsiasi forma.
È ufficiale dunque. Tutto il genere umano sta diventando vegetariano. Sarebbe moralmente assurdo, commenta l’Associazione, continuare a mangiare qualsiasi tipo di essere vivente. La Risalita dei Merluzzi ha dato vita al cambiamento, e anche se adesso ci ritroviamo a vivere su questo pianeta dubbiosi perfino della sua forma sferica non per questo possiamo sentirci in grado di violare le più semplici leggi naturali. Se dalla Risalita dei Merluzzi perfino gli animali hanno smesso di cibarsi dei propri simili, dimostrando di preferire gli ortaggi, non possiamo fare altro che inchinarci davanti a questa grande mutazione e infornare un polpettone…
Nessun essere umano degno di questo nome potrà più cibarsi della carne di un povero animale indifeso, questo è certo.
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Il ragionamento filava, su questo non c’erano dubbi. Il mondo stava cambiando.
Avevamo appena occupato e non avevamo nemmeno fatto in tempo a finire le nostre scorte che i pesci se n’erano usciti dall’acqua convertendo il pianeta alle verdure. Questa era una notizia da festeggiare adeguatamente. E lo facemmo.
I generi di conforto si susseguirono rapidi, così come gli articoli che a turno leggemmo ad alta voce per apprendere il mutamento a cui non avevamo assistito. Ovviamente assieme ai pesci emersero anche una valanga di problemi logistici, ma nulla d’insuperabile in fin dei conti.
Festeggiammo il nuovo domicilio e i nostri nuovi vicini di casa fino a quando non terminammo le scorte, allora la lucidità ci avvolse affievolendo il ricordo degli articoli appena assimilati. Uscimmo alla ricerca del nostro uomo praticamente immemori dell’accaduto, ma una volta in strada capimmo perfettamente come avrebbe dovuto sentirsi un pesce rinchiuso in un acquario prima della Risalita. Da un momento all’altro, pensavo, un’enorme faccia, trasfigurata e ridacchiante, ci avrebbe fatto perdere qualche decibel colpendo con il dito il vetro oltre il quale dovevamo essere finiti assieme a tutto il genere umano. Di colpo ci ritrovammo disorientati in un mondo nuovo del quale avevamo letto qualcosa, ma di cui non conoscevamo nulla. Dovevamo assolutamente bere qualcosa.
Entrammo nell’osteria di quartiere, apprendendo quello che ancora non era possibile cogliere dai giornali. Gli avventori abituali, per protesta, bevevano esclusivamente vino bianco, denigrando in malo modo i nuovi ospiti a causa dei fritti misti di cui già sentivano la mancanza. Le forchette più anziane erano la categoria maggiormente colpita dalla Risalita dei Merluzzi: tanta abbondanza e nessuna pietanza, intercalavano spesso nel fraseggio al posto delle solite imprecazioni, sunteggiando perfettamente la propria frustrazione. Tutto nella norma comunque. Nelle osterie i vecchi erano sempre arrabbiati, o perché il partito glielo aveva messo sotto la coda, o perché il partito glielo aveva tolto di colpo, da sotto la coda, facendogli male, o perché una cavolo di squadra non riusciva a mettere una palla in rete. Cambiava la musica, ma la tonalità era sempre la stessa. Se non fosse che perfino il calcio, per fortuna, perse l’ascendente che aveva sempre avuto sul cittadino medio e i calciatori, che un tempo abitavano gli album delle figurine, iniziarono a lottare con le murene.



Capitolo uno

Marione, l’autonomo punkettone


Marione stava gustandosi una trombetta sul poggiolo di casa. Suo padre piangeva sotto lo stendibiancheria e pensava, indotto dalla bomba del figlio, alla guerra. Le lacrime inzuppavano il contenuto dello stendino, così la roba appesa non asciugava mai e stava lì, ammuffita sul balcone, da quando Marione aveva iniziato ufficialmente a fare uso di droghe leggere a casa.
Un poco gli dispiaceva al Mario, visto che sotto quella crosta muschiata doveva esserci anche la sua maglietta con sopra stampata la foto del papa con un cannone in bocca. Sempre che sua madre non l’avesse fatta sparire.
Marione stava sbirciando una vecchietta in compagnia di quella che doveva essere la nipote che, scendendo dalla macchina, vide una sogliola spiaccicata per terra vicino a una ruota. Guardando il povero pesce la ragazza trasalì e rivolgendosi alla parente ancora attaccata alla portiera sbottò: «Oh mamma mia! Devo aver investito una sogliola…»
«Un vestito da sogliola, ma mica è carnevale» urlò la vecchia regolando l’apparecchio acustico al massimo.
«Ma che vestito… investito. Guarda…» ripeté la ragazza scrutando con compassione il pesce ferito.
«Dolcezza non urlare così forte che mi scarichi il pacemaker…»
«Nonna, per favore! Si dev’essere fatta male…»
«Ma dai che non è fatta male, anzi mi sembra proprio una bella sogliola.»
«Nonna vuoi darmi una mano… Poveretta, cosa possiamo fare?»
«Io la farei in umido.»
«Stai mettendo la mia pazienza a dura prova» urlò.
Marione cominciò a ridere, attirando così l’attenzione della dolce pulzella dai capelli verdi.
«Non deve stare troppo bene, cosa posso fare?» chiese in cerca d’aiuto.
«Chi, la sogliola o tua nonna?»
La ragazza sbottò un mezzo vaffanculo e si girò giusto in tempo per vedere la parente rimbalzare su di uno scuolabus. Per fortuna la vecchiaccia – grazie alle innumerevoli applicazioni di silicone che l’avevano resa simile a Gommaflex – rimbalzò su un lampione e andò a schiantarsi sul guardrail.
«Diavolo di un’arterio» sbottò, «devi sempre farti notare. Cavolo, non si muove, sta morendo, dovremmo chiamare un veterinario.»
Mario conosceva bene Righetta, la sogliola. Era il suo polo attrattivo domestico. Righetta passava intere giornate acquattata nell’aiuola limitrofa al posteggio riservato agli handicappati e ogni volta che un veicolo lo occupava si sdraiava quasi sotto una ruota sbattendo un po’ le pinne per attirare l’attenzione del conducente. Righetta giocava sul sicuro, l’autista di una macchina riservata a portatori di handicap non restava certo impassibile al richiamo di un povero pesce ferito e dopo vari tentennamenti tutti provavano ad alleviare il proprio senso di colpa a suon di involtini[1]. Involtini che la sogliola, pervasa da nuova vita, intascava di colpo scappando verso un periodo di vacanza nell’albergo preferito.
Gli alberghi ittici erano uno dei risultati delle trasformazioni d’attività provocate dalla Risalita dei Merluzzi. In poco tempo, infatti, tutti i pescivendoli rimasero senza lavoro. Nessuno pescava e nessuno osava più né mangiare né comprare del pesce. Tuttavia i pescivendoli erano furbi e dopo un breve periodo in cui s’improvvisarono coristi riciclarono la propria attività. Loro conoscevano i pesci meglio di chiunque altro, quindi pensarono di sfruttare la propria esperienza per offrire un servizio ai nuovi arrivati dividendo i banchi frigo in tante piccole stanzette e iscrivendosi all’associazione alberghiera locale. In questo modo anche i branzini, per esempio, che di solito amavano vivere a ridosso di calde correnti, potevano godersi una vacanza in una stanza tiepida e confortevole con colori vivaci. O i polpi, che preferivano le correnti fredde, potevano godere di gelide stanzette ben ventilate con muri ruvidi e scuri. L’unico problema era dettato dalle acciughe. A loro caldo o freddo non interessava, volevano solo starsene in compagnia. Nessun pescivendolo, o albergatore che dir si voglia, riuscì mai a far soggiornare un’acciuga in una singola. Si stipavano infatti in piccoli loculi di marmo che avrebbero potuto contenere solo cinque di loro, almeno in cento, stipate come… come delle acciughe, appunto.
Righetta, in questo modo, poteva permettersi una suite alla pescheria Iole, una delle più rinomate della città e distante dal balcone del Mario solo pochi battiti di pinna.
«Tu lo sapevi?» urlò la ragazza arrabbiata, guardando cinque involtini prendere il largo.
«Ti assicuro che è la prima volta che assisto a una scena del genere.»
«Sì, come no!» sbottò spruzzando del limone sulla portiera della macchina per far allontanare le patelle dalla serratura, «Mi chiamo Mirella comunque, e tu?»
«Mario… Piacere di conoscerti. Che limone usi?»
«Perché, vuoi farti una pera?»
«Non sono mica un mago» replicò non capendo cosa avesse voluto dire, «è solo che quelle che ti porti dietro sono patelle di Sestri, e per loro va bene il limone, ma se ti fermi un po’ arriveranno anche quelle di Albaro e allora ti servirà del lime.»
«Del lime?»
«Sono terribilmente snob.»
«Grazie dell’informazione» rispose guardando il proprio interlocutore con un po’ più di simpatia, mentre quest’ultimo alzò la canna a mo’ di saluto. Sembrava la statua della libertà, o il tipo con la fiaccola olimpica nell’istante che precede l’inizio dei giochi.
Il padre di Marione, stimolato dall’immobilità del figlio, si spinse oltre la cortina di mutande indurite per vedere cosa stesse combinando la prole, facendo però un po’ paura alla piccola che si mise a urlare: «Ecchecavolo, il tuo stendibiancheria si è mosso…»
«Ah scusami, dimenticavo… Ti presento mio padre: papà, Mirella. Mirella, papà.»
Lo stendibiancheria agitò un paio di calzini.
«Usi dei calzini di compensato?» chiese, mentre la Vecchia traspariva impazienza pogando con le macchine in mezzo alla carreggiata.
«Non sono di legno, sono pietrificati, è quasi un anno che mio padre vive lì sotto piangendo.»
«Perché?»
«Perché i miei cannoni, che sono la metafora della mia presa di posizione politica, gli ricordano la guerra.»
«Ma dai! E che guerra ha fatto?»
«Nessuna, ma ha visto troppi telegiornali.»
«Oh poveretto… Perché non smetti allora?»
«E tu, perché non ti fai i capelli rosa?»
«Ricevuto. Senti io devo accompagnare mia nonna alla casa di cura, ne avrò per un’oretta, non è che dopo mi accompagneresti a cercare del lime?»
«Con piacere…» rispose abbassando il pugno. Dopodiché salutò il padre e andò a prepararsi per l’appuntamento con un piccolo dubbio. Come poteva confessare alla punkettina che non c’era bisogno del lime, ma che l’aveva presa un po’ per i fondelli?
Le anguille gorgogliavano nel sifone del water schizzando acqua dappertutto, questo succedeva più o meno in tutti gli appartamenti e nessuno era ancora riuscito a capire come mai si trovassero a proprio agio in un posto del genere.
Il padre, durante le sue uscite, poteva finalmente sottrarsi alla coltre dello stendibiancheria per piazzarsi direttamente davanti al televisore a forma d’ostrica, il cui design non aveva nulla a che fare con la Risalita dei Merluzzi. Mario avrebbe voluto indossare la sua maglietta con il papa alternativo, per far vedere alla ragazza coi capelli verdi che non era un pivello, ma un punk serio e impegnato, e che anche se viveva ancora a casa con i genitori invece che nei bidoni dell’immondizia assieme alle murene, sapeva cosa voleva dire lotta di classe e conosceva bene persino gli autonomi. A dir la verità tanto bene non li conosceva, ma un signore con il loro classico giubbotto, un giorno, gli chiese d’accendere. Ma potrebbe anche essere stato un pescatore inglese.



Capitolo uno e tre quarti

Visioni di complotto


Conobbi Marione al centro, stavo in un angolo a rollarne di forme strane e lui rimase colpito dalla Stratocaster che stavo ultimando: «Ehilà mate[2], manca un’ottava a quella chitarra…»
«Lo so, ho finito le cartine.»
«Se mi fai fare due note te ne do una io.»
«Ho già incollato il manico… non è che poi perde sustain
«È un lavoro di fino lo ammetto, ma visto come ti destreggi sono sicuro che dopo potremmo suonarci Hendrix con quella.»
Perché no, pensai. Il punkettino appena uscito di casa mi era simpatico. Almeno non si era lanciato in ardite sperimentazioni musicali per impressionarmi, anzi, con tutta onestà mi citava Hendrix. Elegante come una maglietta nera, a suo agio in qualsiasi situazione. Universale.
«OK, passami Mr. Tamburine che regolo le ottave.»
Iniziammo a suonare. In quanto più anziano accesi l’ampli e bruciai quasi tutta la cassa, rendendolo partecipe dall’attaccamento del manico in poi. D’altra parte la chitarra l’avevo costruita io.
L’ottava in più comportò anche un aumento di principio attivo e io, che da anni avevo la mia dose fissa, fui preso sottogamba dal sovrappiù ed elaborai, senza nemmeno rendermene conto, il concetto di lotta di classe crostacea. Strano che non ci avessi mai pensato prima. Tutto era sbagliato e l’ideale punk faceva acqua. Stavo chiuso al centro da prima della Risalita dei Merluzzi e mai, dico mai, avevo visto un gambero o un’aragosta da quelle parti. Bisognava fare qualcosa. Probabilmente i miei compagni stavano applicando un razzismo classista con una sorta di door selection subliminale. Non era possibile che in tutto questo tempo non un solo gambero fosse mai entrato nel nostro spazio autogestito.
Mi alzai di colpo rubando la strato di bocca al Marione che mi fissò un po’ spaventato e, brandendo quel che restava del manico, più come Luke Skywalker che Jimi Hendrix, saltai sul tavolo dove i miei amici stavano giocando a punker, una variante del poker di nostra invenzione: «È possibile che nessuno di noi si sia ancora mosso a favore delle aragoste? È possibile che in tutto questo tempo nessuno di noi si sia mai chiesto perché un solo crostaceo non si sia mai degnato di farci visita? Ve lo dico io il perché… Perché qualcuno qui dentro sta tramando contro di loro. Sissignori, qualcuno sta attuando una sorta di ghettizzazione verso questa povera specie animale che ne ha già subite fin troppe da parte nostra. Abbiamo sbagliato tutto, ve lo dico io, cavolo. Siamo noi che abbiamo trasformato i crostacei in simboli capitalistici, loro non ne possono nulla… Quindi vi chiedo che sia messa fine a questa discriminazione assurda e voglio che i cospiratori di questa infame door selection da discoteca riminese si facciano avanti assumendosi le proprie responsabilità.»
«Ehi Pat, che hai preso stasera? Sei veramente andato.»
I miei amici non condivisero la mia illuminazione e non furono nemmeno molto delicati nel rimettermi al mio posto davanti al Mario che adesso si guardava intorno un po’ a disagio… Capii d’essere diventato parte di un problema più grande di me: l’integrazione politica dei crostacei. Certo, socialmente quasi tutte le specie erano state accettate e inserite regolarmente nella vita comune, ma per quanto riguardava il nostro microcosmo le cose non stavano affatto così.



Capitolo uno e cinque quarti

Piccoli dilemmi con adrenalina



Marione e Mirella s’incontrarono all’ora stabilita. Marione, tutto in tiro, si presentò con due cannoni raffiguranti miniature medievali: «Preferisci Re Artù o il Conan il Barbaro?»
«Dammi Conan, sono un po’ giù oggi…»
«Perché hai portato tua nonna all’ospizio?»
«No, per lei è come andare in villeggiatura. Sono un po’ depressa per via dei pesci.»
«Perché?! Che fastidio ti danno?»
«Non mi danno nessun fastidio, anzi… Sono contenta che abbiano risalito la superficie per tenerci compagnia. Li adoro, ma non li so riconoscere. Li osservo in continuazione, gioco con loro, li coccolo, poi torno a casa e se qualcuno mi chiede che cosa ho fatto non so dire se ho giocato con una bavosa o con uno scorfano…»
«Beh, lo scorfano ha le spine…»
«Ecco, proprio quello intendevo. Io sono vegetariana da sempre, i genitori dei miei genitori lo erano e i miei genitori anche, è per questo che ho i capelli verdi, non sono tinti.»
«Quindi i tuoi piatti non hanno mai ospitato un branzino.»
«Non so nemmeno come sia fatto un branzino.»
«Beh, a dir la verità neanche io.»
«Vedi che anche che tu hai il mio stesso problema in fondo. Conosciamo i polpi, gli squali e i piranha perché ci hanno fatto i film. Conosciamo i gamberi perché vanno a marcia indietro e i naselli perché li davamo da mangiare ai gatti, ma adesso che girano con testa e coda non sappiamo neanche riconoscerli. Dimmi: quand’è che hai capito che il merluzzo non nasce rettangolare e che il tonno non si sbriciola con un grissino? Dimmelo…»
«Beh, vediamo… Humm… Come hai detto che nasce il merluzzo?»
«E che ne so? Comunque non impanato.»
«Davvero?! »
«Lo vedi?» singhiozzò ironica.
«E dai, sto scherzando. Nessuno può conoscere tutte le specie che adesso vivono con noi, nemmeno i pescatori dei tempi andati erano abituati a tanta varietà, ognuno aveva il suo campo, no? Gli autonomi inglesi… pardon, i pescatori inglesi acchiappavano i barracuda. I nostri vicini mediterranei i branzini, le orate e sicuramente le acciughe, mentre i milanesi solo trote e vecchi copertoni. Come puoi sentirti depressa nel non conoscere quello che in fondo non conosce nessuno? Certo i film ci hanno aiutato, ma non possiamo pretendere una conoscenza universale, dobbiamo prendere quello che viene…»
«Forse hai ragione, forse bisognerebbe prendere le cose così come vengono…» disse respirando profondamente vicino al viso del proprio interlocutore.
«Già, bisognerebbe prendere le cose così… bisognerebbe prender…» continuò Mario andando a schiantarsi sulle sue labbra.
I due rimasero attaccati così a lungo che dovettero spruzzarsi del limone sui piedi.
Marione credette di sognare.
«Vedi, quello nella cintura di quel carpentiere è un pesce martello, mentre quello che sta giungendo contromano è una tinca. Le tinche ancora non hanno capito il funzionamento dei sensi unici e purtroppo si riconoscono facilmente. Ogni macchina ne ha una tatuata sul paraurti.»
«Ma dai! E io che pensavo fosse lo stemma di un qualche club esclusivo. Pensa che volevo staccarne uno da una Mercedes per mettermelo sul chiodo.»
«Meglio che tu non l’abbia fatto, gli ambientalisti si sarebbero arrabbiati parecchio.»
«Beh, mi sarei arrabbiata anch’io al loro posto, ma come potevo immaginarmelo?! Sono contenta d’averti conosciuto Marione, davvero…» disse, mentre lui tentava di tenere a bada il colorito rossastro.
«Anch’io sono… Ehm… Sono contento d’averti incontrata. Vuoi venire al centro sociale con me questa sera?»
«Certo che voglio, voglio venirci tutte le sere» disse.
Poi si attaccò alle sue labbra come una patella.



Capitolo due

Lo spiazzo dell'ospizio


La signora Spezzano fece il suo ingresso nella hall vittoriana della rinomata casa di cura con passo indeciso e si aggiudicò uno strike di ricoverati concentrati nel trattenere il tè che stavano bevendo. I medici indossarono il camice di gala e si apprestarono a ricevere come si conviene la loro migliore cliente.
La vecchiaccia, conscia d’essere giunta a destinazione, iniziò a recitare. Mimando un repentino calo di pressione incespicò il giusto per lasciarsi cadere a terra quando l’ombra alla sua sinistra fosse stata pronta alla presa. Purtroppo quest’ultima non apparteneva al baldanzoso dott. Novelli, di cui lei era segretamente – a parer suo – innamorata, ma al cavalier Bonfiglio, che da tempo immemorabile era convinto d’essere parte integrante di un mosaico bizantino. La Vecchia quindi, rimbalzandogli sopra, andò a frantumare l’ottomana Luigi XV che faceva bella mostra di sé nella hall. Due capitoli interi furono cancellati dai testi scolastici e un notissimo antiquario cittadino tentò il suicidio.
«Oh, la mia testa…» sussurrò la Vecchia, seguendo il copione da professionista una volta riacquistato il lume della ragione.
«Non si agiti signora Spezzano, va tutto bene, ha preso un bella botta, ci ha fatto spaventare tutti lo sa?» recitava armonioso e rassicurante il dottore.
«Dottor Novelli è lei?» urlò, proiettata dalla forza dell’amore in mezzo a un concerto degli U2, «È lei dottore?»
«Si calmi signora Spezzano, si calmi. E poi non c’è nessun motivo per tenere l’apparecchio acustico così alto.»
«Non è alto dottore.»
«Sì che lo è mia cara. Quando le parlo sento l’eco.»
«Le va sempre di scherzare» continuò alzandosi da terra con abilità ninja, «non ce la facevo più a starle lontana, sa? Le mie emicranie mi tormentano.» 
«Ma signora mia, ne abbiamo già parlato…» e qui il dottore si trattenne. Era inutile ribadirle di non doversi incollare la parrucca col Bostik, almeno non prima d’aver consultato i referti di qualche diciassettina di esami. «Ma venga qui mia cara, mi abbracci un po’… Bentornata…» disse, mentre una nuvoletta a forma di dollaro si materializzò sulla sua testa, «Le ho riservato la sua camera preferita.»
«Come farei senza di lei dottore.»
Mirella voleva bene a sua nonna, ma non capiva perché dovesse spendere tutti quei soldi per assurde cure a mali che non aveva affatto piuttosto che usarli per godersi un poco la vita. Più volte avevano affrontato l’argomento, ma il risultato era sempre lo stesso. La Vecchia non voleva sentir ragioni. Come tutti i ragazzini avevano bisogno dei Pink Floyd durante i primi cannoni, lei aveva bisogno del proprio dottore. Il dottore Novelli era il suo catalizzatore, il suo confessore, il suo amante e il suo imbonitore. Senza il dottor Novelli persino il Valium non aveva lo stesso sapore.
Purtroppo i sentimenti che la Vecchia provava per il proprio pusher ogni tanto venivano condivisi da qualche altra ospite dell’istituto, per non parlare del custode. Quando questo succedeva non era difficile assistere a straordinari scontri ottocenteschi fra duellanti ottantenni pronti a sbranarsi l’un l’altro. Ma senza i denti per farlo.
Sei anni prima, per esempio, la signora Spezzano arrivò persino a segregare la signora Di Masi in camera sua per una settimana; gelosa delle occhiate seducenti che, secondo lei, il dottor Novelli dispensava all’altra sua paziente. Naturalmente, visto che il conto in banca Spezzano superava notevolmente quello della vittima, la Vecchia venne denunciata e la signora Di Masi fu sgridata da tutto il reparto per aver saltato ripetutamente i pasti.
In fondo la vita all’ospizio sarebbe stata terribilmente monotona senza questi piccoli colpi di scena. Gli inservienti servivano la prima colazione alle otto, ma tutti gli ospiti alle cinque del mattino stavano già combattendo la propria battaglia contro l’inevitabile decadimento cellulare a colpi di creme di bellezza e lifting improvvisati col nastro adesivo. Dopodiché si procedeva all’elezione di Mr. o Mrs. Casa di cura. Colui che di notte riusciva a non inumidire i sensori inseriti nei materassi e collegati al computer della reception veniva portato in trionfo nel corridoio principale, guadagnandosi il diritto di scelta del menu giornaliero. Anche se questo era un privilegio poco sfruttato.
Dopo colazione si ammazzava il tempo fino all’ora di pranzo, nella quale oltre che mangiare minestrina e sputare stelline sui propri vicini, si spettegolava un poco. Si tornava quindi a uccidere, sempre che non si venisse stroncati da un’indigestione, per arrivare sani e salvi all’ora di cena, in cui l’unica variazione era rappresentata dalla forma della pastina in brodo. Infine, dopo le ventuno, si cercava d’abituarsi un poco alla vita eterna sdraiandosi e dando inizio al totofunerale. I ricoverati più arzilli, infatti, usavano scommettere sullo stato di salute dei propri compagni seguendo tabelle con quote personalizzate da paziente a paziente. Ogni tanto anche i medici, ovviamente esclusi dalla competizione, arrotondavano vendendo qualche soffiata in cambio di un prestanome.
La Vecchia, amata e temuta al tempo stesso, al totofunerale aveva realizzato incassi record. Non giocava spesso, ma ogni volta che la mefistofelica ottantenne metteva mano al portafogli potevi star certo che il poveretto in questione non si sarebbe svegliato. Ci si poteva regolare l’orologio.
Dopo la quinta vincita successiva fu anche aperta un’inchiesta. Per qualche giorno tutti ebbero il timore che fosse proprio lei a truccare le estrazioni, quindi intervennero le autorità. Un agente di trentadue anni camuffato da Matusalemme s’infiltrò tra la massa di rimbambiti fingendosi gravemente ammalato. Per tutto quel tempo la Vecchia non scommise una lira. Il caso fu archiviato e la polizia ebbe grande motivo d’imbarazzo quando scoprì che il trucco applicato sul viso del proprio infiltrato era permanente.


[1] Biglietti pre euro da diecimila lire
[2] Compagno



Questi sono i primi capitoli di LIBRO MARIA, è possibile scaricare il file per intero dai seguenti link:



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