Radical Choc: hipster, quanti & rock'n'roll




Ho scritto Radical Choc: hipster, quanti & rock'n'roll in quattro mesi, a partire dall’estate del 2014, per mia figlia Miranda, che sarebbe nata in inverno pochi giorni prima di Natale. Era ovviamente un periodo particolare per me, stavo per diventare padre e vivevo la gioia e le paure classiche del caso. Ho pensato quindi di scrivere per lei una sorta di moderna favola rock’n’roll per esorcizzare il timore di quel futuro che sapevo non esistere, perlomeno a livello conscio, in quanto puro stato mentale. Mi sono divertito molto nel farlo ed è uno dei romanzi di cui vado più fiero. Il libro era già terminato prima che Miranda nascesse, ma attesi di darlo in pasto alla Rete e lo feci la sera del giorno in cui Miranda nacque. Avevo disegnato una copertina diversa da quella attuale e la sua pubblicazione era limitata alla Rete, sul mio sito e su un sito di ebook sharing che frequentavo e che adesso non credo sia più mantenuto da nessuno: Meetale.





Chiesi a Bjorn Giordano, amico e talentuosissimo artista, nonché artefice del booktrailer di Libro Maria,







se per caso avesse avuto voglia di disegnarmene una e lui prontamente acconsentì. Gli dissi però di non aver indicazioni da fornirgli, volevo che leggesse il libro e che agisse relativamente e in maniera completamente autonoma e Bjorn non mi deluse. Disegnò la copertina attuale di Radical Choc, lasciandomi solo il compito di inserirvi i testi.





Tenevo particolarmente a questo libro e non solo per i motivi immaginabili ma perché lo trovavo ben strutturato, giovane e soddisfacente nella trama, quindi ne feci stampare privatamente cento copie in due trance da cinquanta l’una, differenti tra di loro solo per la correzione di alcuni refusi. A questo punto, tramite un’amica, una di queste copie finì tra le mani di famoso docente di filosofia all’università di Genova che, a mia insaputa (lo venni poi a sapere in seguito tramite la mia amica) lo volle spedire ad un suo ex alunno per suggerirgliene la pubblicazione. Ebbi un tremito quando scoprì che il suo ex alunno era Ernesto Franco, il direttore editoriale di Einaudi. Quest’ultimo purtroppo non rispose, a tutt’oggi non sappiamo se il libro gli sia mai arrivato o meno, ma la cosa mi riempì comunque di orgoglio e gratitudine. Sull’onda dell’entusiasmo proposi anche il libro a un agente letterario, ma non ottenni risposta, quindi mi fermai (a parte una piccola disavventura con bookabook.it un sito così assurdo che merita un post tutto suo), almeno fino a quando una piccola casa editrice che collaborava con Meetale (Arpeggio Libero Edizioni) non propose un concorso. Per partecipare bastava inserire un semplice tag nell’opera presente sulle pagine del sito, lo feci e poco dopo venni avvisato di essere stato selezionato. Firmai il contratto a patto che la casa editrice lo avesse pubblicato con la copertina di Bjorn, approvando solo una minima modifica per inserire il logo di Arpeggio Libero e il libro è al momento acquistabile in libreria, alle fiere e, ovviamente, sul sito della casa editrice (al momento offline per un rinnovo dello stesso).

Ma, bando alle ciance, ecco qui una preview del romanzo in questione per invogliarvi al suo acquisto e, mi raccomando, passate parola.








 

Radical Choc

(hipster, quanti & rock and roll)


Patrizio Pinna

 

romanzo

  

 


 

 

A Miranda



 


 

1

 

 

Lo sospettava già da qualche tempo, il lavoro era calato ai minimi storici e la crisi in cui tutto il paese sembrava essersi ormai adagiato, agonizzante ma incredulo, aveva ripetutamente doppiato la tragedia del Vajont in quanto a vittime. Erano anni che Francesco accoglieva l’accredito dello stipendio con una sorta di stupore e sapeva che se l’avessero lasciato a casa, come la maggior parte dei suoi colleghi, l’avrebbero fatto di venerdì.

E quel giorno, guarda caso, era proprio venerdì.

Il suo capo fu clemente, bisogna dirlo, non aspettò la fine della giornata come i suoi pari più blasonati, d’altra parte anche lui a breve si sarebbe chiuso la porta alle spalle cercando di limitare i danni, dopodiché avrebbe cercato nuovi promettenti giovani da spremere sperando ancora che lo sviluppo software e la grafica fossero un campo in cui Genova, una delle città più provinciali al mondo, potesse in qualche modo competere con la Silicon Valley.

Fosse stato in America, Francesco sarebbe uscito dall’ufficio con una scatola di cartone con dentro i suoi pochi gadget, qualche bubble-head di sconosciute serie televisive, un tappetino per il mouse vintage, alcune tazze con stampate sopra frasi incomprensibili e una pianta di peperoncino che sembrava apprezzare l’aria calda che il Mac olimpionico soffiava nella sua direzione. Ma visto che l’America era lontana, Francesco infilò nello zaino i suoi pochi giocattoli, caricò al volo qualcosa su cui stava lavorando su un cloud di sua proprietà, cancellò ogni dato sensibile dal computer con una formattazione degna di Jack Bauer e si incamminò giù per la collina di Albaro sorreggendo Apocalypse Now con entrambe le mani.

Mancava poco all’ora di pranzo, ma le scuole stavano finendo e le strade erano già piene zeppe di piccoli hipster coi calzoni arrotolati, le scarpe firmate ma sfatte, tatuati, con barbe lunghe (almeno quelli a cui già cresceva) e su biciclette da migliaia di euro che però dovevano sembrare appena uscite dai bidoni dell’immondizia. E questi erano solo i ragazzini, i loro fratelli maggiori sarebbero usciti dai loro uffici più tardi, intasando le vie con le loro moto scalcagnate, con le biciclette, gli skateboard, i segway e le carriole convertite.

Francesco non aveva mai provato nulla del genere per qualsiasi altra sottocultura. Hippie o post hippie non ne aveva mai conosciuti, tranne sua madre ovviamente, che, dopo essersi lasciata sfuggire di averlo concepito nell’84 al concerto di Frank Zappa con un perfetto quanto bellissimo sconosciuto – costringendolo suo malgrado a qualche anno di terapia – cercava di non lasciar trapelare altri dettagli di quel fumoso passato che persino lei faceva fatica a ricordare. I punk li aveva evitati per un pelo, anche se erano stati una manna dal cielo, musicalmente parlando. Dei più antipatici skinhead, per fortuna, aveva solo sentito parlare. Non aveva mai odiato i new wave, con le loro acconciature cotonate e le camicie oversize, o i dark, vestiti di nero a quaranta gradi e pallidi come cadaveri persino in una città dove le nuvole apparivano solo sulle copertine dei dischi. Non aveva provato nulla per i grunge e le loro camicie di flanella e i pantaloni strappati, a parte forse una leggera invidia per l’amore spassionato che tutte le ragazzine tributavano a Kurt Cobain. Non si era mai preoccupato dei metallari, dei mods, dei rockers, degli straight edge, degli emo (una sorta di dark 2.0) o degli yuppie. Soltanto i punkabbestia lo urtavano, per il fatto di accompagnarsi a poveri animali domestici costringendoli a vivere sui marciapiedi insieme a loro, ma quello che provava per gli hipster era qualcosa di diverso.

Gli hipster contemporanei non possedevano nessuna storia, a parte un ovvio equivoco semantico con la beat generation e il jazz anni ’40, e avevano depredato da un certo punto di vista quella che adesso poteva essere considerata semplicemente la cultura nerd, ma che di culturale, almeno fino a quel momento, non aveva mai avuto nulla. I nerd negli anni ottanta erano semplicemente ragazzini intelligenti, magari poco sportivi e ancor meno abbienti, che non prestavano attenzione alla moda, preferendo concentrarsi sulle rispettive passioni che spesso confluivano nella tecnologia e nei suoi derivati. Andavano bene a scuola, male con le ragazze, e le nottate passate a leggere o davanti allo schermo di un computer li costringeva a occhiali dalla grossa montatura. I pantaloni vintage risvoltati per non sporcarsi di grasso non erano stati acquistati a centinaia di euro, ma erano quelli che avevano in casa, così come la bicicletta era un semplice mezzo di trasporto quando non potevano permettersi di meglio. Le magliette ironiche, spesso a carattere tecnologico, erano forse il loro unico vezzo, una sorta di linguaggio precluso alla massa, come il codice binario, l’esadecimale o le battute su misteriose serie televisive mai trasmesse sui canali nazionali. Gli hipster moderni, invece, erano bambini ricchi, che si divertivano a lasciarsi crescere la barba solo perché in America altri lo facevano, e non per mancanza di tempo e sonno, che setacciavano i mercatini vintage alla ricerca degli abiti giusti, che passano ore a piegarsi l’orlo dei pantaloni alla caviglia per fare in modo che non risultasse perfetto ma nemmeno troppo approssimativo, che si torturavano tatuandosi in ogni dove e che non avevano nemmeno una vera e propria cultura o direzione musicale: pescavano quasi a casaccio dalle varie epoche, prediligendo la bassa fedeltà, le cuffie enormi, il fruscio di fondo e l’alimentazione biologica. Gli hipster erano la nuova release dei paninari e quello che Francesco odiava di più era che, essendosi così espansi, da TriBeCa al mondo intero, non era più libero di indossare i suoi vestiti, i suoi occhiali, i suoi accessori, per evitare di sembrare quasi uno di loro. Gli hipster lo avevano portato a doversi preoccupare del suo guardaroba e del suo aspetto, cosa che non aveva mai fatto in tutta la vita. Per questo non li sopportava.

Attraversò tutto il quartiere a piedi, evitando il bus ad Apocalypse Now. Non lo disturbava granché il fatto di avere appena perso il lavoro, quanto il pensiero di dover migrare la sua piantina. Mai un peperoncino gli era durato tanto, e mai e poi mai nessuno dei suoi precedenti era riuscito a donargli bacche così deflagranti.

Mano a mano che si avvicinava a casa, oltrepassando quel confine immaginario che divideva Albaro da Sturla, una sorta di strana euforia lo colse. Era a spasso, certo, in uno dei periodi più bui della storia, ma si sentiva felice, libero addirittura, nonostante gli avessero appena tagliato i fondi per esserlo davvero. Almeno questo è quello che sostenevano in molti.

Dopo aver aperto la porta di casa Francesco si incantò in soggiorno. Solo nel week end avrebbe potuto vedere la sala così illuminata dal sole se non si fosse sempre alzato abbondantemente dopo l’ora di pranzo e quella visione cancellò qualsiasi tipo di preoccupazione verso quello che avrebbe dovuto dire alla sua compagna che, avendo i turni in ospedale, probabilmente era ancora a letto.

«Sono a casa…» disse, senza urlare, per non svegliarla nel caso stesse ancora dormendo. Poi sistemò Apocalypse Now in un angolo dove il sole picchiava dalla mattina alla sera.

«Sì… Sì…» sentì provenire dalla camera da letto, con una cadenza che lì per lì non interpretò come avrebbe dovuto. «Sto venendo…» continuò lei, quasi gridando.

Possedere un quoziente intellettivo sopra la media poteva non essere sufficiente in determinate situazioni. Una persona normale, probabilmente, avrebbe messo a fuoco subito la situazione, non si sarebbe chiesto il perché di una frase del genere al posto di un semplice saluto, ma il dubbio che avrebbe dovuto palesarsi istantaneamente impiegò un paio di secondi per trovare la strada tra la miriade di sinapsi che si attuarono per cercare di capire quella semplice frase accompagnata dai mugolii che in quei tre anni di convivenza aveva imparato a conoscere bene.

Francesco si affacciò in camera da letto sorridendo, pregustando quello in cui stava per evolvere quella strana mattinata, ormai certo di aver scoperto la propria compagna in un affascinante momento autoerotico, ma una volta sull’uscio capì la sua ingenuità scoprendola piegata in due con dietro un fottuto hipster barbuto e tatuato dalla testa ai piedi che, al culmine dell’orgasmo, seppur stupito, non si vergognò di menarle i due fendenti conclusivi, prima di ritirarsi per avvolgersi in un lenzuolo.

«Oh… Cristo, Frank» sbottò lei, infilandosi la maglietta. «Non è come pensi…»

Francesco rimase di stucco a quelle parole, anche il tipo tatuato, avvolto nel lenzuolo, la guardò stranito cercando di capire dove volesse andare a parare. Erano stati scoperti, era chiaro, ed era anche chiaro che la cosa andava avanti da chissà quanto tempo, visto che nemmeno indossava il preservativo. Non era uno recuperato a un concerto quello, sempre che esistessero gruppi rock con la voglia di suonare alle dieci del mattino, quello era un fottuto amante in piena regola e, cosa che più lo turbava, e per cui non riusciva a togliergli gli occhi di dosso, con la barba, i capelli lunghi e quel fottuto lenzuolo, sembrava davvero Gesù Cristo. Anche se difficilmente l’originale si sarebbe fatto tatuare una croce sull’avambraccio.

Poi, dopo quella che sembrò un’eternità, Francesco udì la propria voce dal di fuori, come se non fosse nemmeno lui a parlare: «Non è come penso?! Non mi dire, quindi non stavate facendo yoga nudi o qualche altra cazzata da hipster? e lui non ti è caduto dietro? e dentro? Non è così? Allora, per favore, illuminami… Cos’è successo?» ma mentre si ascoltava si accorse di non provare nulla, né rabbia, né gelosia, niente di niente. Solo una profonda tristezza per aver gettato quasi tre anni con una ragazza di cui, ora se ne rendeva conto, non era mai stato davvero innamorato.

Anita provò ad arrampicarsi sugli specchi, ma il tipo dietro di lei le mise una mano sulla spalla. Non c’era nulla da dire e Francesco non l’avrebbe comunque ascoltata, prese Apocalypse Now e uscì.

«Manderò qualcuno a prendere la mia roba» disse dal pianerottolo.

«Ma Frank, Frank…» singhiozzò lei alle sue spalle, per un motivo che né lui né Cristo riuscivano a capire.

«Quante cazzo di volte ti ho chiesto di non chiamarmi Frank?» sussurrò ormai per le scale, senza nemmeno voltarsi, come se se lo stesse chiedendo da solo, «quante volte?»


 

2

 

 

Dopo aver vagato un poco per il quartiere con Apocalypse Now in mano e la sensazione di essere ubriaco pur non avendo bevuto nulla, Francesco si diresse verso casa di sua madre.

Suonò e attese un paio di minuti, stava per fare dietro front quando sentì il rumore dello spioncino.

«Ma’» disse, «sono io…»

«Frank!» esclamò lei dall’altra parte.

Questa storia non finirà mai, pensò, prima di trovarsi davanti sua madre in vestaglia che, a quasi sessant’anni, aveva ancora un fisico della madonna.

«Oh, cavolo. Ti ho svegliata, stavi dormendo?»

«Ero a letto» disse lei sorridendo, «ma non stavo dormendo.»

«Dio bio, ma chiavate tutti di venerdì mattina?»

Sua madre gli diede un pugno sulla spalla: «Vedi di non essere maleducato» sorrise, aggiustandosi il laccio della vestaglia di seta.

Entrarono.

«Oggi ho perso il lavoro, l’azienda ha chiuso.»

«Oh, cazzo!» sbottò la mamma.

«E tornato a casa ho beccato Anita a letto con un altro.»

«Oh, cazzo!» sbottò una voce maschile alle sue spalle.

Francesco si voltò e vide un altro hipster, dai tatuaggi più stagionati, a torso nudo e avvolto in un paio di jeans aderenti: «Oh, cazzo!» sbottò anche lui.

«Frank, ti presento Walter, lui è Frank, il mio bambino.»

«Lieto di conoscerti Frank» disse stritolandogli la mano.

«Francesco, mi chiamo Francesco. Quante volte te lo devo dire, ma’?»

«Non mi ha mai perdonato di averlo concepito a un concerto di Frank Zappa.»

«Caspita, Frank Zappa» disse il tipo indossando una vecchia maglietta dell’Atari, «dovresti andarne fiero invece…» ma la mamma gli fece un cenno col capo e Walter si arrestò. «Preparo un po’ di caffè» concluse e si defilò in cucina.

«Mi spiace cucciolo, è da un po’ che volevo farvi conoscere, ma…»

«Ma?!»

«Beh, tu sei sempre così prevenuto quando si tratta dei miei fidanzati.»

«Forse perché mi fa un po’ strano avere una mamma che chiama i suoi uomini fidanzati.»

«Ehi, vedi di non offendermi. Non sarò certo una ragazzina e non sono nemmeno stata granché fortunata con gli uomini, forse per colpa mia, te lo concedo, ma qualcosa di buono l’ho fatto, ti ho cresciuto da sola, lo sai, e ho cercato di non farti mai mancare nulla.»

A parte un padre, pensò, ma non glielo disse. Non se lo meritava. Stava capendo solo in quel momento che quello che tanto gli dava fastidio delle sue relazioni era il fatto che non si facesse problemi a troncarle. Fiamma non aveva ancora capito quel che voleva, ma sapeva perfettamente quello che non voleva. Lui, invece, non aveva capito un bel niente, e non solo, aveva anche gettato al vento tre anni della sua vita. Sua madre una relazione così lunga non l’aveva mai avuta.

«Ehi ma’, lo so che ti sei fatta il mazzo per me, e non dev’essere stato facile. Ti voglio bene lo sai. E so anche che Anita non ti è mai piaciuta davvero…»

«No, dai… non dire così. È che tra donne ci si capisce meglio, un’infermiera poi…»

«Un’infermiera?!» esclamò Walter dalla cucina.

«Oh… Cristo, ma cosa c’entra il suo lavoro?»

Walter spuntò dalla cucina con le tazzine di caffè in mano: «C’entra eccome, non puoi fargliene una colpa, quelle povere ragazze ne vedono di cotte e di crude tutti i santi giorni, vedono coi loro occhi tutto ciò a cui noi, per paura, spesso evitiamo di pensare…»

«Sanno che la vita è breve, ragazzo mio» continuò sua madre, «e che di punto in bianco questa può riservare delle brutte sorprese.»

«Come i dottori d’altra parte» continuò Walter, «non ti sei mai chiesto come mai tutti i medici, proprio loro che non dovrebbero, fumano come delle ciminiere? Per lo stesso identico motivo.»

«Mi stai dicendo quindi che tutti i medici son tabagisti e tutte le infermiere puttane?»

«Beh, puttane è una parola forte. Diciamo che loro hanno semplicemente una visione un po’ più chiara rispetto alla nostra. Sono più portate a cogliere l’attimo…»

«Sarà» ammise Francesco, «Anita a quanto pare di attimi deve averne colti un bel po’ in mia assenza.»

«Beh, ora però è il tuo turno. Sei un bel ragazzo, intelligente, e soprattutto sei giovane, magari ora ti sembrerà strano, ma non ci metterai molto a capire che i cambiamenti, in un modo o nell’altro, sono sempre positivi.»

«Questa dove l’hai scovata dentro un Bacio Perugina?»

«Ehi, non essere maleducato.»

«Tranquilla Fiamma, il tuo bambino è uno stronzetto senza peli sulla lingua, mi piace, mi sa che andremo d’accordo. Sai, ero preoccupato, me lo avevi dipinto un po’ troppo nerd.»

«Disse quello con la maglietta dell’Atari.»

Risero.

Francesco era sempre stato scettico riguardo i fidanzati di sua madre: una mandria di casi umani che lei sembrava attirare come una calamita, ma quella volta, pur cercando di non abbassare la guardia, provò una sensazione diversa al riguardo. Sentirla chiamare per nome poi, di solito gli provocava emozioni contrastanti. Mal sopportava l’intimità che quel gesto racchiudeva, mentre quella volta, senza un motivo apparente, le parole pronunciate da quello strano incrocio nerd-hipster-rocker, quel ragazzino sessantenne di cui nulla sembrava volerne palesare l’età, a parte forse l’argento pallido che ancora folto ne ricopriva il capo, suonarono particolarmente armoniose alle sue orecchie. Fiamma, pensò, mai altro nome era stato così appropriato. Peccato doverlo capire soltanto adesso.

«Ok, io mi faccio una doccia, così voi due potete chiacchierare in pace, poi, sempre che tu abbia qualche centinaia di euro in tasca, potrei anche pensare di venderti la mia maglietta.»

«Per quei soldi potrei comprarmene uno stock su eBay.»

«Sì, come no. Questa è originale anni ’80 e non far finta di non saperlo. È da quando l’ho indossata» disse di spalle muovendo verso il bagno, «che ho percepito un tremito nella Forza…» e vi sparì dentro senza lasciargli possibilità di replica.

«Ok» disse Francesco quasi sottovoce, «sembra simpatico, tatuaggi a parte, dove l’hai trovato?»

«A un concerto» ammise abbassando un poco gli occhi.

«Oh, cacchio, ancora concerti?!»

«Perché scusa, i Rolling Stones suonano sempre, confronto a loro sono una pivella.»

«Sei andata a vedere gli Stones?»

«No, beh… non negli ultimi anni, l’ho conosciuto a quello dei Subsonica.»

«Subsonica?! Mi prendi in giro?»

«No, perché?»

«Dio bio, mamma, i Subsonica?! Ma è musica da ragazzini.»

«Ehi, non tirartela con me, senza contare che ho visto tutti dal vivo, dai Beatles a Hendrix ai Led ai Jethro e così via, e lo sai, fino al mitico Frank… ma questa è Genova, caspita, devo prendere quel che passa il convento.»

«E lui cosa ci faceva lì dentro, scusa?»

«Lui ci lavora, non con i Subsonica, ma è uno di quelli che affittano e montano le luci, gli amplificatori, cose del genere. Un giorno gli toccano i Subsonica, un giorno Paolini, e quando butta male una convention di Forza Italia…»

«Una vita al limite, eh?! Sul filo del raviolo.»

«Smettila di prenderlo in giro. È una cosa seria questa volta. Almeno spero.»

«D’accordo, cercherò di fare il bravo, ma senti, io speravo di potermi fermare qualche giorno qui per cercarmi una sistemazione con calma, sempre che sia rimasto un posto dove il tuo amichetto non abbia rilasciato fluidi.»

«Beh, certo, questa sarà sempre casa tua. Ma se sei diventato così schizzinoso credo che tu non abbia altra scelta che dormire nell’armadio.»

«Mamma?!»

«E comunque Walter vive qui.»

«Vive con te?! E da quanto?»

«Un paio di mesi, volevo dirtelo, ma è una vita che non passi. Volevo che vi conosceste di persona, non mi andava di parlartene per telefono. È un problema per te?»

«No, figurati» ammise, soprattutto a se stesso. «Sono contento che tu non sia sola. Lascia stare dai, come non detto, mi sistemerò da Teo.»

«Beh sono sicura che starai meglio assieme ai tuoi amici, di nuovo tutti insieme come ai vecchi tempi.»

«Che diavolo stai dicendo, Willis?»

«Come non lo sai? Anche Sergio si è trasferito di nuovo lì, da un paio di settimane credo. Per dividere le spese, sai c’è crisi» ridacchiò, «ma scusa da quant’è che non li senti?»

«Da un po’» ammise abbassando lo sguardo, «ma tu invece, come lo sai?»

«Beh, Teo mi telefona spesso per sapere come sto, è simpatico, dice sempre che sono la sua milf preferita» rise.

«E tu lo lasci fare?»

«Perché no? mi ha sempre fatto sbellicare dalle risate, fin da quando eravate all’asilo. È un fuoriclasse…»

«Già» disse, pensando che i suoi due migliori amici, trascurati per il motivo più banale, l’avrebbero sicuramente accolto con piacere e con piacere l’avrebbero messo alla gogna per un bel pezzo. La vendetta, infatti, come spesso amava ripetere Teo, era un piatto che andava servito a colazione, pranzo, cena e anche a merenda se non si era a dieta.

Dopo essersi fatto estorcere la promessa di portare i suoi amici a cena l’indomani, Francesco salutò sua mamma. Urlò qualcosa contro la porta del bagno oltre la quale Walter stava distruggendo All along the watchtower, nella versione di Hendrix, con tanto di assoli di chitarra, e tra una strofa e l’altra anche Walter urlò qualcosa di vagamente intellegibile come un: alla prossima ragazzino, prima di rientrare perfettamente a tempo nel refrain. Poi uscì, convinto di essere in procinto di finire ibernato nella grafite, come Han Solo, ed esposto nel salotto dei suoi due migliori amici: in quello stesso appartamento dove vissero assieme quattro anni, fino a che lui non si fidanzò e Sergio non si trasferì a Milano per lavoro.


 

3

 

 

Quando Sergio aprì la porta – pronto alla solita diatriba dialettica con i Testimoni di Geova che ancora non riuscivano a mettere a fuoco la sua tesi sulla scientificamente provata inesistenza di Dio, sebbene gliel’avesse già enunciata per ore e ore da ogni angolazione – e si trovò Francesco davanti, con Apocalypse Now in mano, per un attimo, il suo viso esplose in un sorriso. Poi, dopo aver mutato la propria genuina felicità in un ghigno diabolico urlò: «Teeeooo, indovina chi c’è?»

«Fraaank?!» fece lui di rimando dalla sala, trattenendo a stento l’allegria.

«E Apocalypse Now.»

«Apocalypse Now?! Allora qui qualcuno ha bisogno di un letto.»

«E di un sottovaso.»

«E di un sottovaso si intende.»

«Siete proprio scemi, lo sapete?»

I due si guardarono l’un l’altro e si sorrisero compiaciuti, felici come due bambini il giorno di Natale. Contenti di ritrovarsi tutti assieme come un tempo, per trattenere per la coda quella sorta di post adolescenza da cui sarebbero prima o poi dovuti emergere adulti. Anche se biologicamente e socialmente potevano già essere considerati tali.

«Come facevate a sapere che ero io…» chiese prima di mettere a fuoco, «Ah… Ha già chiamato?»

«Ho buttato giù il telefono adesso. Dai entra, Fiamma mi ha detto che hai perso donna e lavoro stamattina.»

«Oh, cazzo…» sbottò Sergio.

«Proprio così, ma in ordine inverso.»

«Caspita, non me lo ricordavo così pignolo, e tu?» chiese Teo.

«No, nemmeno io.»

Risero.

«Ok, dacci qualche input.»

«Non ci sono molti dati da elaborare, c’è crisi.»

«Sì questo lo sappiamo, il qui presente nostro amico» disse indicando Sergio, «come tu ben sai è stato costretto a tornare a casa dopo aver assaggiato un poco della Milano da bere ma sono ben altri i dettagli che ci interessano.»

«Sì immagino, ma non c’è molto altro da raccontare, son tornato a casa prima del tempo e c’era un altro dentro il mio letto e dentro la mia donna.»

I due si scompisciarono dalle risate.

«Perdonaci» disse Sergio, «ma ci mancava la tua innata capacità di sintesi.»

«Non c’è molto da sintetizzare, aveva un altro la stronza, un hipster fatto e finito…»

«No?! Questo Fiamma non me l’ha raccontato. Hipster, hipster?»

«Con tanto di barba e tatuaggi.»

«Oh, cazzo…» sbottarono in coro.

«Non li sopporto quelli.»

«A chi lo dici. Il mondo sta davvero andando a rotoli. Quindi cos’hai fatto?» chiese Teo.

«L’hai suonato?» aggiunse Sergio.

«Macché, ti risulta che abbia mai messo le mani addosso a qualcuno?»

«No, ma prima o poi bisognerebbe cominciare a farlo, potrebbe essere catartico.»

«Forse, ma avrei dovuto suonare Anita, era di lei che mi fidavo.»

«Già, ma dopotutto c’era da immaginarselo col suo lavoro» disse Teo.

«Un’infermiera…» aggiunse Sergio.

«Caspita, anche voi con questa storia. Cos’è, perché una lavora in ospedale deve per forza essere troia?»

«No, certo che no. È che col lavoro che fanno…»

«Con tutta la sofferenza con cui hanno a che fare...»

«Sanno unire l’utero al dilettevole meglio di chiunque altro.»

Risero.

«Ma perché, non te n’eri mai accorto?» chiese Teo.

«Non credo di averci mai pensato.»

«Non credo alle mie orecchie» continuò Sergio, «eppure ne converrai che tutto nell’universo è riconducibile e rappresentabile matematicamente, no?»

«Cristo, Sergio, ma dove vuoi arrivare?»

«Ma è palese scusami, gli schemi esistono e sono sempre stati sotto i nostri occhi, e non sto parlando di matematica pura, ma di intuizioni basiche, semplici. Le infermiere scopano più facilmente di altre categorie, le segretarie degli studi legali sembrano essere incapaci di unirsi in matrimonio e sublimano le loro carenze affettive con animali domestici…»

«Non andandoci a letto, intendiamoci» puntualizzò Teo.

«Sì, l’avevo capito.»

«E quelli che nel mezzo di una stupida lite fan saltare le cervella alle loro compagne sono sempre sbirri.»

«O metronotte…»

«O vigili urbani…»

«Le ragazze bene son più porche delle proletarie, ai preti piacciono i bambini e al giorno d’oggi, fino ai ventidue anni, più o meno, tutte le ragazze son lesbiche.»

«Come scusa?!»

I suoi amici ridevano come bambini, contenti di potersi di nuovo alternare le battute per prenderlo in giro.

Si conoscevano dai tempi dell’asilo e avevo fatto lo stesso percorso scolastico, tutti insieme, fino alla maturità scientifica. Lì si erano divisi. Sergio, che all’epoca era già un genio dei computer, aveva deviato la propria carriera universitaria verso Lettere e Filosofia dopo una breve parentesi Informatica. Non sopportava di doversi rapportare con professori che non avevano un terzo della sua preparazione. Teo, all’anagrafe Gianfranco, ma da tutti chiamato Teo per via di teoricamente, l’intercalare che usava spesso in giovane età, si iscrisse, guarda caso, a Fisica, laureandosi con lode con una tesi sulla teoria delle stringhe.

Francesco, che non poteva godere dei benefici economici di un padre idraulico che possedeva una villa enorme sulla collina di Apparizione e che divideva, tra l’altro, con una ragazza di vent’anni più giovane che sembrava uscita dalla Playboy Mansion West, visto che la mamma di Teo, purtroppo, era scomparsa in giovane età, o di una famiglia di rinomati avvocati come nel caso di Sergio, aveva deviato suo malgrado verso un diploma triennale di Web Designer dove l’unica cosa utile che imparò erano i nomi dei docenti che si alternavano alla cattedra per inerzia come se non avessero avuto di meglio da fare.

I loro quozienti intellettivi, sommati, arrivavano a sfiorare il cinquecento e forse per questo furono tutti delusi dai rispettivi percorsi universitari. Sergio ottenne senza problemi il titolo di dottore in filosofia suscitando terremoti familiari di non scarsa entità. L’unico modo che poteva concepire per venire a capo di una laurea era quello di sottoporsi allo studio di una materia di cui non conosceva nulla, soltanto in questo modo sarebbe riuscito a soprassedere alla dilagante mancanza di entusiasmo del corpo insegnante che avrebbe voluto plasmare i suoi studenti col minore impegno possibile.

Sergio, interessato veramente alla fisica teorica e alla teoria delle stringhe, aveva abbandonato dopo pochi mesi un prestigiosissimo dottorato di ricerca, col quale sarebbe quasi sicuramente approdato al Cern di Ginevra, perché cosciente che in tutte le altre dimensioni, fossero queste ventisei o semplicemente dieci, nessuno dei suoi doppi avrebbe mai acconsentito a lavorare senza stipendio.

Nel mondo normale, quello comunemente popolato di partite di calcio, trasmissioni demenziali, american bar e hipster barbuti in ogni dove, possedere un’intelligenza superiore alla media poteva, da un certo punto di vista, essere anche un motivo di orgoglio, ma per la maggior parte del tempo non produceva nessun tipo di benessere, anzi. Fin dai tempi della scuola dell’obbligo, i tre, non erano benvisti dai propri compagni e spesso nemmeno dal corpo insegnante. Il sentimento era ovviamente reciproco quindi i rapporti interpersonali col resto del mondo furono limitati alla mera sopravvivenza. Si salutarono, metaforicamente parlando, solo dopo l’esame di maturità e, sul finire degli studi universitari, confluirono a vivere insieme per quattro divertentissimi anni. Quando Francesco conobbe Anita, la loro relazione, e quello che ai tempi fu scambiato per buonsenso, li portò a vivere insieme. Forse, se sua madre e i suoi amici gli avessero enunciato per tempo le loro teorie sul lavoro di infermiera tutto questo non sarebbe successo. D’altra parte: un conto era avere un’intelligenza superiore alla media, perlomeno a detta dei cervelloni del Mensa, un conto era saper stare al mondo.

«Vedo che non è cambiato nulla qui dentro» disse dopo aver posteggiato Apocalypse Now.

«No beh, l’appartamento più o meno è sempre il solito.»

«A parte…»

«A parte, cosa?» chiese preoccupato.

«Beh, diciamo che la tua vecchia stanza…»

«Sì, la tua vecchia stanza…»

«Dio bio, raga’! Che è successo alla mia vecchia stanza, non l’avrete mica subaffittata?»

Risero.

«No, questo no, non vogliamo certo estranei qui dentro.»

«A dir la verità non sappiamo nemmeno se vogliamo te!»

Risero ancora.

«È che, visto che la tua stanza era inutilizzata.»

«E che a noi non serviva granché.»

«Beh, l’abbiamo usata per…»

«Cristo, raga’… volete dirmi per che cacchio l’avete utilizzata?» chiese con un po’ di apprensione. Avrebbe voluto semplicemente prendere il corridoio e andare a vedere di persona, ma non viveva lì da troppo tempo per comportarsi come se non se ne fosse mai andato. A Teo e Sergio non avrebbe certo dato fastidio, ma era una questione di principio.

«Ma rilassati, cipollino» disse Teo, «non è che l’abbiamo usata per far a pezzi qualcuno, tipo Dexter.»

«Che telefilm del cazzo, poi.»

«È che ci abbiamo infilato dentro un po’ di roba.»

«Sì» rise Sergio, «quello che non ci serviva.»

«Oh, cavolo…» sbottò Francesco «La stanza degli orrori?»

«La stanza degli orrori» confermò Teo.

«Splendidamente illustrato» disse Sergio.

La stanza degli orrori era la trasposizione domestica di un essere mitologico assetato di sangue, almeno così Francesco la immaginava. I suoi compagni, ai tempi, ne avevano sempre millantato la necessità, per evitare di dover perdere tempo ed energie nel cercare di capire quali fossero i gadget superflui, i vestiti smessi, le calzature di cui liberarsi, i fumetti e i libri che non avrebbero mai più letto, il mobilio venuto a noia, gli elettrodomestici rotti che – nel caso – avrebbero potuto riparare se il centro commerciale ne fosse stato sprovvisto, i vecchi computer, i cui componenti vintage sarebbero potuti servire prima o poi, le console passate di moda e gli anacronistici monitor a tubo catodico che in capo a qualche centinaia di anni avrebbero potuto vendere a qualche hipster per migliaia di crediti energetici. Se non fosse stato per Francesco, almeno negli anni della loro convivenza, Sergio e Teo avrebbero depositato nei cassonetti dell’immondizia soltanto i rifiuti maleodoranti, condividendo senza problemi lo spazio, già esiguo, anche con elettrodomestici non più funzionanti del calibro di una lavatrice o di un frigorifero.

Filosofia e fisica teorica erano sì discipline di tutto rispetto che cercavano le risposte ai più grandi quesiti esistenziali: quali il senso della vita condito di tutti i suoi perché e per come e, per quanto Sergio e Teo sapessero disquisire elegantemente sulla Critica della Ragion Pura o sulle imperfezioni della meccanica quantistica ordinaria, questo non significava che entrambi fossero in grado di manovrare correttamente un battitappeto o che volessero davvero farlo. Era Francesco che aveva sempre posseduto la migliore interfaccia domotica, come spesso i due si divertivano a ripetergli quando, non riuscendo a educarli nell’ambito della più semplice manutenzione casalinga, preferiva farsene carico in prima persona. Anche se, guardandosi intorno quel giorno, non notò nulla di strano nell’appartamento. I pavimenti erano puliti, i copridivani non sembravano possedere macchie particolari, non c’erano stoviglie sparse per la sala né bicchieri appiccicati sui mobili. Le librerie non sembravano incrostate di polvere e perfino i vetri delle grandi finestre affacciate su via Isonzo – in quel quartiere quasi alla moda che solo vent’anni prima tutti chiamavano il Bronx anziché Sturla – sembravano puliti. I suoi amici non sembravano crogiolarsi in giacigli pestilenziali, purulenti di scabbia, o in qualcuno degli altri scenari apocalittici a cui aveva sempre cercato di pensare di striscio, dribblando così i sensi di colpa dovuti al suo allontanamento. Come se, senza di lui, Sergio e Teo non avessero potuto fare a meno di trasformarsi in una coppia di intelligentissimi barboni.

Ma a quanto parve questo non successe e i due si limitarono a stivare tutto l’inutile dentro quella che un tempo era la sua stanza, il suo mondo. Una sottile forma di vendetta, forse, o semplicemente il bisogno inconscio di riempire il vuoto che aveva lasciato. Due teorie rassicuranti, sotto un certo punto di vista, se non avesse saputo perfettamente, come sua madre amava ripetergli fin da bambino, che il mondo non girava assolutamente intorno a lui. La verità era che Sergio e Teo erano semplicemente pigri. Cosa, tra l’altro, assolutamente comprensibile. Non esisteva nessuna grande verità, nessuna particolare risposta al senso della vita, dell’universo o di tutto quanto, nel portar via la spazzatura. Non per un filosofo e men che meno per un fisico teorico che sapeva perfettamente (o quasi) esistere una dimensione in cui l’aveva già fatto, una dimensione in cui lo stava facendo, una in cui l’avrebbe fatto e persino una in cui il concetto di spazzatura non avrebbe avuto nessun significato. Quindi Francesco decise che per quella notte avrebbe potuto tranquillamente dormire sul divano. Era venerdì tredici e sentiva di aver già dato abbastanza per una sola giornata. 



 

4

 

 


Trascorsero il pomeriggio in casa aggiornandosi a vicenda sui rispettivi trascorsi, cercando, sprofondati sui divani – nelle identiche posizioni di un tempo – di eliminare dal continuum temporale quel periodo in cui tutti e tre avevano cercato di farsi largo nel mondo da soli. Non che fossero stati anni buttati o che avessero sprecato il loro tempo, intendiamoci: Sergio aveva avuto una grande esperienza lavorativa in una delle più quotate aziende informatiche del paese, almeno fino a che l’amministratore delegato non migrò ai tropici con soldi non suoi, costringendo la società a una spending review ancora più serrata che ne dimezzò gli impiegati. Certo non avrebbe avuto problemi a farsi assumere in qualche altra realtà milanese, ma la città lo deprimeva, il clima, la completa mancanza di classe dei suoi abitanti che, pur senza nessun particolare talento o peculiarità, si mostravano fieri e superiori nei confronti di chiunque altro e, non meno importante, quell’invasione hipster-ica che, come nei vecchi film di fantascienza, sembrava aver decimato la popolazione giovanile sostituendola con forme di vita aliene composte di barba, tatuaggi, grossi occhiali, scarpe a punta, pantaloni risvoltati e cappelli di lana a contenere folte chiome persino in agosto. Sergio, per quanto appena trentenne, sentiva di non poter vivere in una città dove dopo le dieci di sera i giovani si ostinavano a girare con gli occhiali da sole.

Teo, dal canto suo, aveva sì preso una decisione folle abbandonando la carriera universitaria, ma qualcuno doveva pur cominciare a ribellarsi contro quel sistema di sfruttamento legalizzato tutto italiano. Certo, così facendo, la distanza che lo separava dall’acceleratore di particelle svizzero era aumentata esponenzialmente, anzi, probabilmente si era addirittura precluso uno sbocco del genere, tuttavia ne andava fiero. Sarebbe anche potuto finire a vendere dischi usati in una bancarella al mercato – visto che una laurea come la sua, a Genova, non gli avrebbe nemmeno spalancato le porte di Feltrinelli – ma nessun professore, mai, avrebbe firmato le sue ricerche. Francesco, pur invidiandone il coraggio, nutriva qualche riserva sulla sua decisione, ma non glielo disse. Si alzò dal divano all’ora di cena, quando il suo stomaco, gorgogliando rumorosamente, gli ricordò, come ai vecchi tempi, che se avesse voluto mangiare qualcosa non avrebbe potuto fare affidamento su di un filosofo, né tantomeno su di un fisico teorico. Ma prima che potesse sincerarsi delle condizioni del frigorifero, popolato ai tempi dal mostro di Ghostbusters, il citofono suonò.

«Hanno suonato?» chiese retorico, attendendo il permesso per aprire.

«Beh, lo spero» disse Teo, «vista l’ora.»

Una voce femminile lo colse alla sprovvista. Sbloccò il portone e attese sulla soglia, mentre i due non sembravano intenti ad alzarsi.

Quando l’ascensore si fermò al piano Francesco ne vide uscire quella che sulle prime confuse con la porta pizze più carina e sexy non solo di questa terra, ma di qualsiasi universo parallelo o perpendicolare che fosse. Alta circa un metro e settanta, capelli castani che incorniciavano un ovale pressoché perfetto e due grandi occhi verdi che gli ricordavano qualcosa che non riusciva a mettere a fuoco. Con un paio di anfibi, leggings neri e una canottiera della stessa tonalità che racchiudeva un seno in grado di vanificare, da solo, tutte le teorie di Einstein sull’interazione gravitazionale, e tre cartoni di pizza al seguito.

Francesco rimase basito sull’uscio, bloccato non solo da tanta bellezza e fascino, quanto dallo stupendo sorriso che la tipa gli dedicò dopo averlo visto. Uno di quei sorrisi così genuini e dirompenti che non potevano essere dispensati a comando per aumentare le mance.

Completamente in tilt, le andò incontro prendendole i cartoni delle pizze. La ragazza continuava a sorridere, le due fossette che le si erano formate sulle guance gli avevano mandato in over-clock il sistema endocrino.

Rimasero uno di fronte all’altra qualche secondo. Lei sembrava attendere che Francesco facesse la prima mossa. Lui avrebbe voluto gettare le pizze dal pianerottolo, tre piani più in basso, in modo di avere le mani libere per poterla prendere tra le braccia e baciarla. Prima su quelle meravigliose fossette e poi, ovviamente, sulle labbra. In un vortice di passione si sarebbero trascinati in casa, i suoi amici sarebbero evaporati istantaneamente, anche dalla finestra se necessario, e loro due avrebbero potuto consumare quel loro amore, tanto inaspettato quanto devastante, come solo i sognatori possono e sanno fare. Quindi, quando già i titoli di coda di quella magnifica avventura – sintetizzata in un battito di ciglia, con tanto di sesso, matrimonio, prole e vecchiaia – scorrevano dal basso verso l’alto sullo schermo di un cinema esistente solo nella sua immaginazione e dopo essersi contorto, pur senza muoversi, con la sensazione un tempo classica di aver appena bevuto un cocktail di cianuro e Guttalax, Francesco fece finalmente la prima mossa: «Quanto ti devo?» chiese.

«Cosa ti sei fumato, le processionarie?» replicò lei, dal giorno alla notte, provocando al poveraccio uno shock simile a un’embolia. Quel modo di dire, quella frase, era uno dei cliché che usava spesso la sorella di Sergio. Una ragazzina sveglia, che lui aveva visto nascere, crescere e che, poco più che maggiorenne, stazionava spesso a casa loro a studiare o a giocare col computer.

«Mi…» balbettò lui, «Miranda?!»

«Cristo Frank, che ti succede, stai avendo un ictus?»

«Dio bio, ma eri poco più di una bambina due giorni fa.»

«Sì, due giorni, son passati almeno due anni dall’ultima volta che ci siamo visti» e gli tirò un pugno sulla spalla, proprio come era solita fare Fiamma.

Poi, finalmente si abbracciarono.

Francesco non riusciva a credere che quella ragazzina che un tempo conosceva così bene, in quattro e quattr’otto, si potesse essere trasformata in una ragazza del genere. Si vergognò persino di aver avuto pensieri del genere su di lei, e i suoi due seni, che duri come il marmo gli premevano il costato, non facevano altro che alimentare ulteriormente la sua vergogna.

«Dio bio, Miranda» disse cercando di riappropriarsi di quella confidenza che avevano sempre avuto, «sei una gnocca da paura.»

«Sì, come no» e gli tirò un altro pugno.

Francesco non insistette, non era il caso di mettersi a flirtare con lei.

«Allora» chiese lei, «che succede, è una vita che non ci si vede?»

«Ha perso il lavoro» disse Sergio, arrivando e prendendosi una delle pizze.

«E anche la donna, tutto nello stesso giorno» concluse Teo appropriandosi di un altro cartone.

Miranda lo guardò interrogativa, lui con un gesto del volto ammise che i due, per quanto stronzi, non stavano mentendo.

«Cristo, mi spiace Frank» lo abbracciò di nuovo.

«E voi bastardi» continuò, mi mandate mail e sms per i motivi più stupidi e non mi scrivete quando c’è qualcosa di serio?»

«Volevamo vedere la sua faccia, per questo non ti abbiamo detto nulla» disse Sergio.

«Già» continuò Teo, «non ti ha mica riconosciuta subito. Secondo me ha pensato anche a farti saltare il reggipetto.»

«Sei proprio un coglione, lo sai? Intanto non lo porto, poi solo i nerd come te lo chiamano ancora reggipetto.»

Francesco arrossì.

«Almeno potevate scrivermi di prendere una pizza in più.»

«Eh… vabbè, ci dividiamo queste, che vuoi che sia?»

«Ci dividiamo una sega» disse facendogli l’occhiolino, «voi vi mangiate la vostra solita pizza da sfigati, io e Frank andiamo a mangiare fuori.»

Sergio e Teo rimasero sull’uscio con i cartoni delle pizze in mano, guardandosi stupiti, ma senza fiatare, mentre Miranda trascinava fuori di casa il loro amico. Non frequentavano molte ragazze, questo era palese, ma per quanto si divertissero sempre a punzecchiarla sapevano perfettamente che Miranda alla fine avrebbe avuto l’ultima parola. Quindi si ritirarono contenti di possedere una mezza pizza bonus. Sempre che lei non avesse ordinato una delle sue solite assurdità composta da una decina di ingredienti che in comune con la pizza possedeva solo la forma, a volte.


...



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